Cisterna, 3 femminicidi in 5 anni che poco hanno a che fare con la follia

Cisterna al centro di casi di violenza inaudita contro le donne. Tre femminicidi nel corso degli ultimi 5 anni. Elisa Ciotti, uccisa ieri mattina dal marito, Fabio Trabacchin, è soltanto l’ultima vittima di una lunghissima serie in Italia. I numeri sono mostruosi, viene assassinata una donna ogni 72 ore, una ogni 3 giorni. I dati sono relativi al 2018, quando, fino ad ottobre, le donne uccise erano state 106. Per la maggior parte a porre fine alla loro vita sono mariti, compagni, amanti. La coppia è l’ambito più a rischio per le donne, un concetto che si fa fatica anche a scrivere.

E se qualcuno può pensare che gli omicidi riguardino entrambi i sessi e che non c’è un problema di violenza sulle donne in particolare possiamo dire, sempre numeri alla mano, che non è così. Dal 1 gennaio al 31 ottobre 2018, infatti, rispetto al totale degli omicidi commessi in Italia i femminicidi sono saliti al 37,6 per cento rispetto al 2017, quando erano al 34,8 per cento. Un fenomeno in crescita rispetto a quello degli omicidi in generale che invece è in calo. Si registra infatti una progressiva riduzione del numero totale degli omicidi – sceso nel 2017 al minimo storico di 396 – e delle vittime di sesso maschile.

Insomma il problema esiste, è davanti agli occhi di tutti, ma nonostante questo al momento non si riesce a frenare. Ieri, quando la notizia ha iniziato a diffondersi, tutti sono tornati con la mente ad Antonietta Gargiulo e alle sue bambine, Alessia e Martina, uccise per mano del padre, nel febbraio del 2018. Luigi Capasso si era poi ucciso, soltanto Antonietta è sopravvissuta.

I funerali delle piccole c’erano stati proprio nella chiesa di San Valentino, lo stesso quartiere dove è stata uccisa Elisa Ciotti. Non è però l’unico caso che torna alla memoria. Il 10 novembre del 2014, in via Machiavelli, sempre a Cisterna, un agente della polizia penitenziaria sparò alla moglie uccidendola e poi si tolse la vita. Anche in quel caso il dramma avvenne davanti ai due figli della coppia, di otto e sei anni che fuggirono chiedendo aiuto ai vicini.

E allora che cosa possiamo fare? Chi si occupa di questo tema da tempo consiglia intanto (le parole possono fare molto) di non chiamarli raptus, raptus di violenza, raptus di gelosia. Perché spesso l’omicidio è l’atto finale di una serie di violenze fisiche o psicologiche, o entrambe. Segnali che si possono vedere. Forse non è questo il caso di Elisa Ciotti, perché dalle prime ricerche sembra che non ci siano stati esposti o denunce.

Se si continua a parlare di follia, di gesti incontrollati, di malattie mentali, si dà la falsa impressione che non si possa fare nulla per arginare o semplicemente per aiutare una persona coinvolta in situazioni di violenza all’interno delle mura domestiche. E invece molto si può fare: riconoscere la drammatica “normalità” di questi fatti.

Si può insegnare alle donne, alle ragazze a riconoscere comportamenti che non vanno giustificati, per i quali non bisogna sentirsi in colpa. E poi lavorare sui bambini, sui ragazzi, prepararli a rispettare un no, o un possibile abbandono. Cosa che nella società occidentale si tende a non considerare.

Perché il problema è culturale, le leggi servono ovviamente, quella sullo stalking ha aiutato tanto, anche a dare gli strumenti alle forze dell’ordine per muoversi prima di episodi più gravi. Ma non possono essere, da sole, la soluzione.