Latina, attorno al centro di preghiera islamico gli incontri tra jihadisti. Ma il presidente nega

Attorno al centro di preghiera islamico di Latina si muove un mondo che si esercita, con inquietante applicazione, alla Jihad. Lo ha detto ieri il Pm Sergio Colaiocco, titolare dell’inchiesta che ha portato allo smantellamento della rete dell’attentatore di Berlino, Anis Amri, ucciso dalla Polizia italiana a Sesto San Giovanni pochi giorni dopo la strage del dicembre 2016. Cinque arresti, tra Roma e Latina con l’operazione Mosaico, a fronte dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip di Roma Costantino De Robbio, per i reati contestati a vario titolo di addestramento e attività con finalità di terrorismo internazionale e associazione per delinquere finalizzata alla falsificazione di documenti ed al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Oggi Nasreddine Maaraf, presidente dell’associazione culturale islamica del capoluogo pontino, intervistato da numerosi cronisti, ha negato che il centro di preghiera di via Chiascio fosse frequentato dagli arrestati. O meglio ha detto di non averli mai visti lì, che se fossero andati con l’intenzione di procurare caos li avrebbe denunciati alla Polizia. Una versione che contrasta con quella degli inquirenti.

Il terrorista Amri – come ricostruito dagli investigatori – aveva soggiornato prima di dirigersi in Germania ad Aprilia dove aveva stretto rapporti con un tunisino di 37 anni, residente a Latina, frequentatore del Centro di preghiera islamico del capoluogo pontino e noto per le sue posizioni radicali. Quest’ultimo, poi espulso a marzo, era legato da consolidati rapporti di amicizia con Abdel Salem Napulsi, il 38enne palestinese, tra i destinatari dell’ordinanza cautelare per l’accusa più pesante di addestramento e attività con finalità di terrorismo internazionale, già arrestato per spaccio. Nella sua abitazione romana, nell’ambito del blitz antidroga a seguito del quale pochi mesi fa era stato spedito a Rebibbia, la Polizia aveva trovato e posto sotto sequestro un tablet, la cui analisi aveva evidenziato la sua attività di auto-addestramento attraverso la visione compulsiva di video di propaganda riconducibili al terrorismo islamico ed altri riguardanti l’acquisto e l’uso di armi da fuoco, tra cui fucili e lanciarazzi. L’indagato oggi si è avvalso della facoltà di non rispondere durante l’interrogatorio di garanzia, come gli altri quattro tunisini arrestati ieri.

Il legame tra Amri, Napulsi e il tunisino espulso il 12 marzo 2017 e Latina è evidenziata in diversi passaggi dell’ordinanza del Gip Di Robbio: “Si è potuto riscontrare – scrive il giudice – che, a partire dal periodo in cui questi (Anis Amri, ndr) era stato presente e fino ai giorni nostri, molti cittadini provenienti dai paesi arabi dimoranti nella provincia di Latina avevano subito un processo di radicalizzazione aderendo all’ideologia propugnata dall’Isis e al suo proposito di realizzare atti di terrorismo nel nostro paese”.

Gli inquirenti, nel corso delle indagini attivate subito dopo la morte dell’attentatore di Berlino, avrebbero acquisito nel 2017 la testimonianza di connazionale del terrorista in base alla quale lo stesso Amri insieme ad altri sei avevano programmato nel 2016, durante quattro incontri avvenuti nel centro di preghiera islamico di Latina, un attentato a Roma, da mettere in atto alla stazione Laurentina della metropolitana B. Ma poi Amri era andato a colpire il mercatino di Berlino.