A Latina il pronto soccorso pediatrico è un’entità astratta. Esiste perché i genitori di una bimba morta di meningite, segnati da quella esperienza terribile, fecero sacrifici pazzeschi per recuperare risorse e mettere a disposizione dell’ospedale Goretti l’attrezzatura minima indispensabile per offrire un servizio dignitoso anche ai più piccoli. Esiste, dunque, ma è come se non esistesse. Tanto più che il personale non c’è, il pediatra scende giù dal reparto quando serve, e con i tempi tutti suoi. E talvolta anche con un’arroganza imperdonabile. Imperdonabile per chi ha a che fare con i bambini.
Prendete domenica scorsa, per esempio, e fidatevi del racconto di un testimone diretto, seppure non coinvolto. Mattina presto, poco dopo le 6. C’è una famigliola nel corridoio. Mamma e papà hanno in braccio una bambina di tre anni. Ha forti dolori alle orecchie, la piccola piange. Dal triage l’operatrice li fa accedere all’interno del pronto soccorso pediatrico ma una volta davanti alla piccola saletta capiscono. Dentro non c’è nessuno, sulla porta un avviso come tanti, ma rivolto ai genitori dei bambini. Anche il modo di comunicare certe cose è importante, talvolta, per cui leggete con attenzione. “Il pediatra essendo l’unico consulente per il pronto soccorso, se non è presente nella stanza adibita a visita è stato sicuramente chiamato a soddisfare un’altra esigenza (emergenza in reparto o parto imminente=codice rosso) e se il codice è bianco o verde le visite per i vostri bambini verranno garantite la mattina dalle 11 alle 13 e nel pomeriggio dalle 16 alle 18. E comunque quando si sarà liberato dalle emergenze. Al di fuori di detto orario ci potrebbero essere tempi di attesa molto lunghi. Pertanto siete pregati di attendere con il dovuto rispetto il vostro turno”.
Della serie: sappiatelo, perdete ogni speranza. E in effetti, la speranza, quella famigliola la perde subito. Il padre si sbraccia, chiede attenzione, un infermiere prova a spiegare. La mamma sbotta: “Ci siamo trasferiti da Milano, una cosa del genere non l’avevo mai vista”. Lui chiama al telefono la mamma, tra l’altro infermiera proprio al Goretti. La donna arriva poco dopo e prova a rincuorarli. Macchè. “Ci fanno entrare per restare in attesa quattro ore? Con la bimba che piange per il dolore? Ma che razza di posto è questo?”
Si fanno le 8. Nel frattempo arriva un’altra famiglia. Il paziente è un bimbo di due anni che da due giorni lamenta forti e incomprensibili dolori all’addome. I genitori leggono lo stesso avviso, non credono ai loro occhi. Bestemmiano quello che possono ma poi si mettono pazientemente seduti anche loro. Di domenica mattina presto non esistono tante alternative, se non puoi permetterti uno specialista a domicilio. Ma dopo una mezzoretta circa avviene il miracolo. Sono le 8.30 passate. All’orizzonte, in fondo al corridoio, si materializza quella che poi si presenta come la pediatra. Visita la bimba della prima famiglia e poi esce dalla saletta. Bofonchia qualcosa mentre da dietro, l’altro papà, quello del bimbo coi dolori all’addome, le dice qualcosa tipo: “Ci siamo anche noi”. L’avesse mai fatto. La dottoressa stizzita risponde che non può, non è il suo turno, bisogna aspettare le 11. “Ma come, siamo qui, c’è il bimbo che piange, cosa le costa?”. Lei impassibile. Si rivolge a un infermiere e si fa consegnare il foglio d’accesso al pronto soccorso. “Mi dispiace, gli altri signori erano qui dalle sei, voi siete arrivati alle 8”. Quindi si gira e se ne va sparendo lungo il corridoio, con indifferenza, mentre il bimbo di due anni continua a piangere disperato.