Scream, un horror spaventosamente ironico

Parlare di un film come Scream non è questione affatto semplice, considerati i diversi piani di analisi ai quali si potrebbe sottoporlo. D’altra parte però, sarà certamente più facile capirne l’importanza sulla base delle innovazioni che è stato in grado di apportare.

Siamo nel 1996 quando Wes Craven alla regia e Kevin Williamson come sceneggiatore, decidono di dar vita al personaggio di “Ghostface”, un serial killer con una maschera associabile vagamente a “L’urlo” di Munch, che semina panico uccidendo giovani ragazzi nella piccola e tranquilla Woodsboro (città immaginaria della California). Il film si apre con la scena (diventata vero e proprio cult) che mostra gli omicidi della diciassettenne Casey Becker e del suo fidanzato, i cui corpi finiscono orribilmente mutilati dopo un’inquietante conversazione telefonica che l’assassino aveva utilizzato per preannunciare il suo diabolico massacro. Proprio nello stesso modo l’omicida comincia a molestare la sera seguente Sidney Prescott, una compagna di scuola di Casey, mentre intorno a lei altri amici e conoscenti vengono ritrovati uccisi sempre dalla stessa cruenta mano. La forza di Scream, quella che colpisce lo spettatore, non sta tanto in quello che dice, quanto nella modalità in cui lo fa. Scream è un vero film dell’orrore, con sangue (tanto sangue), colpi di scena continui che fanno sussultare lo spettatore e assassini imprendibili. Fino a qui nulla di nuovo, il genere a cui Scream appartiene e che ha contribuito a rilanciare, esiste da sempre, ed è anzi uno dei filoni più redditizi dell’horror: stiamo parlando dello “slasher movie”, che potremmo anche chiamare “killer con la maschera fa strage di ragazze innocenti”. Le sue influenze sono molto evidenti e anzi, sceneggiatore e regista ci tengono che tutti le colgano piazzando svariati richiami impliciti ed espliciti nel corso di tutta la durata del film. Allora qual è la vera componente innovatrice di questa produzione? Semplicemente la presenza ricorrente e ben bilanciata di una pungente ironia.

“Cos’è uno scherzo?” -” Più che altro un gioco…” risponde il killer alla domanda della giovane ragazza nella sequenza d’apertura. Queste sembrerebbero proprio essere le intenzioni dichiarate del regista riguardo alla sua scelta di narrazione. Tutto viene rappresentato come se fosse un gioco e la sensazione è che quel buon vecchio sadico di Craven si sia divertito come un bambino durante la notte di Halloween nel girare la pellicola. Gli spunti ironici si presentano infatti svariate volte e in contesti diversi perché certamente c’è la volontà da parte degli autori di far divertire il pubblico. Lo prova la frizzante sceneggiatura di Kevin Williamson, il quale forse, aveva in mente un divertissement senza pretese. Ma Scream è anche e soprattutto caratterizzato da una profonda criticità nei confronti di tutti quei film horror degli anni ’70 – ’80 che con i loro superflui sequel, scontati e banali, hanno finito con l’affondare il genere di cui si ergevano come rappresentanti. Le svariate citazioni tratte proprio da questi ultimi, disseminate dall’inizio alla fine, servono non di certo ad un ulteriore rivisitazione degli abusati canovacci del filone, quanto ad una sprezzante reinterpretazione in chiave ironica che diverte il cinefilo più esperto e incuriosisce il neofita.

La bellezza di Scream risiede proprio in questa sua doppia identità che mostra con fierezza: fa paura perché ci tiene a rivendicare la sua natura, ma spesso fa anche sorridere giocando a non prendersi sul serio, così come il suo regista, il quale da una parte destruttura e ridicolizza l’horror, dall’altra, con lo stesso identico vigore, gli dichiara amore eterno.